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Diritto a conoscere le proprie origini e diritto all’anonimato. Quale prevale?

Nel focus di oggi trattiamo un argomento apparentemente lontano da quelli che siamo abituati a trattare normalmente: diritto all’anonimato e diritto a conoscere le proprie origini in caso di parto anonimo.
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Il tema è di estremo interesse e si presta a riflessioni e spunti d’indagine sia per i professionisti dell’investigazione che del settore legale.

Lo faremo partendo dall’analisi di un caso esemplificativo.

Il caso: tra parto anonimo ed adozione

Nell’agosto 1987 nasceva Marco, figlio di una giovane donna, Giulia. Proprio la sua giovane età e la mancanza di mezzi economici adeguati, spingono Giulia a dare il bambino in adozione e a richiedere di rimanere anonima, esercitando la relativa facoltà riconosciutale per legge. Raggiunta la maggiore età, e scoperto di essere stato adottato, Marco manifestava il desiderio di conoscere l’identità della propria madre biologica.

Marco può esercitare il diritto a conoscere le proprie origini nonostante la madre avesse dato attuazione al contrapposto diritto di rimanere anonima?

Prima di dare disposta al quesito, è necessario prendere le mosse da due definizioni:

  1. il diritto all’anonimato esprime la facoltà della madre biologica a rimanere anonima- qualora decida di portare avanti la gravidanza – ed è un diritto che esplica i suoi effetti anche in relazione al figlio garantendogli di vivere e crescere in un contesto familiare adeguato.
  2.  il diritto a conoscere le proprie origini è il diritto contrapposto all’anonimato. È infatti il diritto del figlio a conoscere la propria idenità biologia, connesso all’esigenza di uno sviluppo armonico della propria vita privata, relazionale e familiare; tale diritto ha, altresì, ad oggetto la facoltà di ottenere tutte le informazioni relative alla propria nascita idonee svelarne il segreto, comprese le motivazioni dell’abbandono.

Il quadro normativo

I diritti menzionati sono tutelati a livello costituzionale – art. 2 Costituzione – perché diritti fondanti la personalità dell’individuo e trovano attuanzione nella legge 184/1983, art. 28. quest’ultima norma attribuisce all’adottato che abbia raggiunto i 25 anni di età, il potere di accedere ad informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età (anni 18) se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. 

In origine, l’art. 28 della legge sulle adozioni limitava fortemente il diritto a conoscere le proprie origini, stabilendo che l’accesso alle informazioni non era consentito nei confronti della madre che avesse dichiarato alla nascita di non volere essere nominata (quest’ultima fattispecie rimanda all’art. Art. 30, co. 1 del DPR 396/2000). Pertanto, il diritto all’anonimato prevaleva in modo invalicabile sul diritto a conoscere le proprie origini, pregiudicandone non poco l’esercizio: la normativa si dimostrava estremamente rigida in quanto non prevedeva alcuna possibilità per il giudice di interpellare la madre anonima su richiesta del figlio ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione. Proprio tale rigidità portò i Giudici della Corte Europea dei diritti dell’uomo (c.d. Corte EDU)- nel caso Godelli contro Italia – a condannare l’Italia in ragione della assoluta irreversibilità del segretoAl segreto, infatti, veniva data tutela incondizionata e nettamente prevalente rispetto al diritto dell’adottato, che soccombeva tranchant al segreto espresso e voluto all’atto di nascita da parte della madre.

La decisione della Corte EDU sollecitò una successiva pronuncia della Corte Costituzionale (Sent. 278/2013). La Consulta, infatti, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, proprio nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di interpellare la madre — che abbia dichiarato di non voler essere nominata — su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. La Consulta poi attribuiva al legislatore il compito di emanare un provvedimento normativo volto a determinare le modalità del procedimento di interpello e capace di assicurare la massima riservatezza della madre naturale. Tale provvedimento, ad oggi, non è ancora intervenuto e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate riempiendo il vuoto normativo sul punto, ammettendo, di fatto, che il magistrato incaricato a conoscere la causa possa direttamente interpellare la madre biologica e verificare la sua attuale volontà nel momento in cui sussista un figlio che abbia esercitato il diritto a conoscere la sua vera origine.

Qualora, però, la madre confermi la volontà di rimanere anonima, il diritto del figlio a conoscere le proprie origini dovrà inevitabilmente soccombere (cfr. SS:UU. 1946/2017).

E se la madre non fosse in vita al momento dell’esercizio del diritto?

Questa circostanza è di estrema delicatezza perché il procedimento di interpello, introdotto dalla Corte Costituzionale  non potrà – ovviamente – essere utilizzato e, di conseguenza, la morte della madre biologica diverrebbe un fatto idoneo a cristallizzare l’anonimato esercitato al momento (o prima) del parto.

Tale affermazione pare trovare conferma nella legge (art. 93, comma 2 DLT 30/06/2003 n. 196) che assicura per cento anni dalla formazione della cartella ospedaliera o del certificato di assistenza al parto la riservatezza dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata.

La Corte di Cassazione si è, però, espressa diversamente sul punto. I giudici di legittimità, infatti, hanno ritenuto conoscibili i dati identificativi della madre sin dal momento della sua morte e questo anche se non siano decorsi i cento anni previsti per legge. In tal modo la tutela della riservatezza diviene ancorata alla durata della vita della madre e non al fluire di un tempo prestabilito per legge – tempo che rileverebbe, per ipotesi, solo se la durata della vita della madre dovesse eccedere tale soglia. Diversamente opinando, come premesso, la morte andrebbe a cristallizzare il diritto all’anonimato e a rendere inattuabile la volontà del figlio di conoscere le proprie origini biologiche.

Nei casi di morte della madre biologica, il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini dovrà comunque essere esercitato con le medesime cautele previste per il procedimento di interpello, ossia in modo da assicurare la massima riservatezza circa l’identità della madre e del nucleo relazionale costituitosi dopo aver esercitato il diritto all’anonimato.

In altri termini, il trattamento delle informazioni relativo alle proprie origini dovrà essere eseguito in modo corretto e lecito, senza cagionare alcun danno,  patrimoniale e non patrimoniale, all’immagine, alla reputazione e ad ulteriori interessi di rango costituzionale della madre e di eventuali terzi interessati (cfr. Cass. Civ. 22838/2016).

La soluzione

In sintesi, per rispondere al quesito proposto, l’adottato con più di 25 anni d’età (come nel caso di specie) potrà senz’altro rivolgersi al giudice ed esercitare il diritto a conoscere le proprie origini.

Una volta esercitato tale diritto e qualora la madre biologica sia viva, il giudice attiverà il procedimento di interpello formulando alla madre la richiesta di revoca della propria volontà di non essere nominata, in modo da rendere effettivo ed attuale il bilanciamento degli interessi di figlio e madre. Se la risposta della madre ha contenuto positivo, l’anonimato verrà revocato e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini otterrà piena attuazione. In caso contrario, prevarrà il diritto della madre biologica. Qualora, invece, la madre biologica sia defunta, l’adottato potrà veder soddisfatto il proprio diritto perché considerato prevalente rispetto al diritto all’anonimato, purché esercitato dell’ambito di un procedimento rispettoso dell’immagine, della reputazione e degli ulteriori interessi di rango costituzionale acquisiti medio tempore tanto dalla madre quanto da eventuali terzi interessati.